Di Nicola Marini

Docente Master Accademia Italiana Forza
Osteopata
Coach e responsabile della StrengthLab Padova

 

Inizierei cercando di rispondere a questa domanda:

 

“Cos’è uno sticking point e perchè è utile parlarne?”

 

Come tutti gli atleti agonisti della FIPL sanno bene, il regolamento di gara prevede un’unica regola comune ad ogni alzata (al di là del rispetto dei comandi di gara che comunque cambiano in tutte e 3 le powerlifts), e riguarda il fatto che una volta iniziata la fase di salita del bilanciere (concentrica), questo non possa mai ridiscendere per poi tornare a riprendere il suo moto di salita, pena l’annullamento della prova; è comunque concesso che il bilanciere rallenti, addirittura fino a fermarsi a mezz’aria.

Ecco: nel caso in cui ciò si dovesse verificare, ci troveremmo di fronte ad uno sticking point.

“Punto appiccicoso”, tradotto letteralmente, mai nome fu più azzeccato di questo per l’immagine mentale che è in grado di restituire: in effetti sembra proprio che l’atleta sia improvvisamente frenato da qualcosa di esterno ed impalpabile che riesce a farlo bruscamente rallentare, capita di vedere alzate molto veloci fino a metà ROM scontrarsi improvvisamente contro il muro invisibile di uno sticking point. Detta così sembrerebbe però quasi che lo sticking point sia qualcosa con cui tutti obbligatoriamente dovremmo fare i conti, come se facesse parte di un’alzata in modo aprioristico… insomma qualcosa che va gestito più che risolto, ma è davvero così?

 

 

CONSIDERAZIONI BASATE SULL’AGONISMO

 

Beh, come vi ho precedentemente descritto, l’esistenza di questa decelerazione improvvisa è contemplata nel regolamento di gara, che anche solo per questo motivo ne riconosce indirettamente quindi l’esistenza e l’ampia diffusione, quel che però a questo punto possiamo verificare, dopo che il powerlifting in Italia ha visto crescere rapidamente le liste di atleti iscritti in gara (e ci auguriamo continui così), e dopo che il livello, specialmente tecnico, dei nostri ragazzi si è alzato in modo così evidente, è che non sempre si vedono terze chiamate di gara in cui l’atleta si trovi ad affrontare uno sticking point, ci capita di vedere frequentemente alzate molto veloci anche a carichi massimali:

“perchè avevano ancora margine”

potrebbe obbiettare qualcuno, beh in realtà non sempre.

Nell’ampia casistica di atleti che abbiamo possibilità di mettere sotto la lente d’ingrandimento, possiamo osservare ragazzi che concludono brillantemente una seconda prova per poi fallire in terza pur rialzando di poco peso, o ancora atleti che riescono a chiudere alzate molto sofferte per un lungo tratto di movimento, più che di sticking point a questo punto dovremmo parlare di “sticking zone”, addirittura nel corso del percorso di lavoro di un atleta non è detto che uno sticking point in un’alzata si sposti o scompaia del tutto.

 

POSSIBILI CAUSE

 

Nonostante identificare la causa di uno sticking point in un singolo individuo sia relativamente semplice per un allenatore che abbia un bagaglio esperienziale sufficientemente ampio, ragionare del perchè lo sticking point esista in generale è decisamente più ambizioso, io ho identificato le seguenti cause:

 

1) Controllo motorio:

Parto da quello che sono convinto sia il parametro più importante per lavorare su uno sticking point, in 9 atleti su 10 potremo riconoscere effettivamente qualcosa che non funziona come dovrebbe in termini di controllo motorio, PRIMA del verificarsi di uno sticking point.

Un caso tanto semplice quanto eclatante è quello di un atleta che cerchi di rimbalzare in buca nello squat perdendo stabilità e compattezza in zona addominale per andare ad appoggiarsi sulle tibie e sulle ginocchia nel tentativo di sfruttare l’inerzia offerta dal rimbalzo per uscire vigorosamente dal basso. I problemi di questa dinamica sono come minimo due: il primo è che schiacciandomi in avanti in buca non vado a mettere in tensione il femorale, i glutei e la catena posteriore, di conseguenza, poi, in spinta non avrò niente che mi aiuti a tenere il bilanciere su dei binari favorevoli a ricevere la spinta delle cosce; in secondo luogo, appoggiarmi sulle ginocchia comprometterà il mio baricentro sul piede che però poi in spinta dovrà in qualche modo essere recuperato, pena fallire o peggio farsi male, dato che non posso spingere dalle dita dei piedi, e nel riportare il bacino indietro, il corpo si sbilancerà sui talloni creando un’importante sproporzione articolare tra i gradi di flesso-estensione di caviglia, ginocchio e anca, compromettendo un’attivazione muscolare sinergica e ottimale, e compromettendo anche la traiettoria del bilanciere. Ecco, in questo caso lo sticking point si verificherebbe poco sopra il parallelo, ma sarebbe insensato credere che la causa sia una questione di leve, mobilità o carenze muscolari, che magari sono anche effettivamente problematiche in quel determinato soggetto, ma non certo imputabili come causa primaria fintanto che abbiamo a che fare con un palese errore.

Altrettanto sbagliato è invece identificare il problema come una questione di natura tecnica ma focalizzandosi sulla zona in cui osserviamo il problema ad esempio inserendo fermi o varianti che diminuiscano il range of motion all’altezza dello sticking point; ciò sarebbe del tutto inutile, perchè, come abbiamo visto nel nostro esempio, il problema è come l’atleta gestisce la discesa, non la fase di spinta.

E di esempi così potremmo farne a decine, l’atleta che parte con il bacino ruotato e la pancia chiusa nello stacco e poi in chiusura rallenta improvvisamente, quello che abbassa il petto in panca durante il fermo e poi si ritrova con il bilanciere piantato a mezz’aria, e via dicendo.. in tutti questi casi il modo corretto ed efficace per agire sullo sticking point è lavorare su ciò che lo causa, muoversi diversamente è come continuare a mettere pezzi di scotch sopra la gomma bucata della bicicletta, si ok più ne metto più lo scotch ha probabilità di riuscire a reggere ma la soluzione rimane ripararla oppure cambiarla, specialmente se poi con quella bicicletta mi piacerebbe andare a farci le gare.

 

 

 

2) Le Leve:

Le caratteristiche antropometriche di un atleta determinano inevitabilmente il suo posizionamento sotto il bilanciere, il che determinerà la dinamica dell’alzata, che a sua volta deciderà la sua attivazione muscolare e i suoi angoli articolari. Effettivamente penso ad un atleta con leve difficili per lo stacco da terra, femore corto, busto lungo, braccio medio-corto, un soggetto di questo tipo dovrà sempre fare i conti con uno sticking point a carichi massimali, specialmente in uno stacco classico, molto probabilmente a livello del passaggio al ginocchio, questo non solo a causa delle leve in sé, ma anche per l’effetto di queste sulla sua capacità di non sbagliare a carichi elevati,

più un’alzata ci è resa intuitiva dalla natura più risulta semplice trovare una direzione che ci permetta di fare le stesse cose al 50% e al 100% dell’1RM

ma quando ciò non accade bisogna trovare strategie di movimento che si accordino con altri fattori (mobilità, distribuzione muscolare, capacità di attivazione) e tirarne fuori il compromesso migliore, quello con possibilità di costruzione e crescita maggiore.

 

3) La mobilità articolare:

Impossibile non menzionare il parametro che più di tutti è in grado di condizionare gli angoli articolari di un’alzata, ovvero la mobilità articolare. Fino ad ora questa cosa degli angoli articolari torna sempre, su 3 fattori presi in considerazione per 3 volte si è parlato di angoli, ed effettivamente sono determinanti o meglio determinante è la loro proporzione sotto carico! Ed effettivamente sono condizionati fortemente dalla possibilità per un atleta di raggiungerli in comodità strutturale, un concetto che suona piuttosto bene ma andiamo a vedere che intendo: immaginiamo un atleta che abbia deciso di fare uno squat con una stance molto larga, magari anche proporzionata alle sue leve quindi non disquisiamo della correttezza di questa scelta in termini tecnici, ma facciamo finta che questo atleta non possieda una mobilità di anca tale da permettergli di gestire l’alzata in comodità strutturale.

Beh, prima di tutto, il soggetto in questione dovrà fare i conti con la definizione di squat valido secondo il regolamento di gara, in questo caso sappiamo che sarà necessario rompere il piano del parallelo (e possibilmente in entrambi i lati, cosa che in alzate con setup molto al limite inizia ad avere un certo peso, ma per ora fingiamo non sia importante). Bene, per farlo ovviamente sarà costretto a misurarsi con gli angoli che il suo corpo gli concede di raggiungere, e se questi non basteranno per ottenere un’alzata valida sarà costretto a introdurre altre soluzioni, dei compensi articolari, nel caso di uno squat che non riesca a spezzare il parallelo uno di questi potrebbe essere la retroversione di bacino e lo sbilanciamento sui talloni in basso, con tutti i problemi che ne derivano sui quali non mi soffermerò in questo articolo. Però questo è ciò a cui mi riferisco quando parlo di “comodità strutturale” ovvero la capacità di raggiungere una determinata posizione senza essere costretti a sacrificare il posizionamento di strutture adiacenti. La mobilità può aiutarci in questo ma ovviamente fino a dove il creatore ce lo concede.

 

4) I muscoli:

Arriviamo infine alla questione muscolatura.

Effettivamente, il come una persona è fatta dal punto di vista della massa magra può darci delle indicazioni importanti per decidere come lavorare e su che genere di alzata investire il nostro tempo e le nostre energie. In questo senso credo che l’occhio di un buon allenatore dovrebbe cadere più sulla distribuzione della massa magra di un atleta che sull’andare a caccia di eventuali “carenze” che trovo fin troppo mitizzate, visto che ogni sport crea la propria ipertrofia specifica, dunque non vedo perchè non dovrebbe essere lo stesso per un powerlifter. Il grado di presenza però di muscolatura attorno ad un’articolazione chiave può darci un indizio importante per decidere come impostare la tecnica o lo stile di un’alzata.

Ad esempio, un ragazzo molto ipertrofico a livello di glueti e catena posteriore e di contro longilineo e carente di massa magra nei quadricipiti gioverà certamente di uno squat lowbar e piu in generale di un’alzata che faccia leva sui suoi punti forti, al contempo sarà sicuramente intelligente trovare dei metodi per potenziare la muscolatura di spinta ma in questo caso il “come” conta tantissimo, servono esercizi che abbiano transfert, che riescano ad accendere il sistema nervoso e problematizzare la stabilità del movimento al pari di uno squat, quindi non perdiamo tempo a tal proposito sulle leg extension. Quel che è certo è che non tenere conto di queste soggettività potrebbe tra le altre cose condurre a sticking point in zone strane dell’alzata e del tutto evitabili accorgendoci del tipo di struttura su cui stiamo impostando il lavoro.

 

 

CONSIDERAZIONI FINALI

 

Per tirare le somme, credo che quel che conti sia minimizzare le probabilità di incontrare uno sticking point brutale nelle nostre alzate per quel che ci è dato conoscere, quindi basandoci almeno sui punti citati in questo articolo. Fatto questo, dobbiamo comunque essere allenati a gestire un rallentamento dei carichi quando le % di peso arriveranno in prossimità del massimale, perchè che ci sia un brusco rallentamento (sticking point) causato da una sproporzione articolare oppure no, sicuramente i tempi sotto tensione si dilateranno e sarà inevitabile che la nostra capacità di mantenere una linea di spinta stabile ed efficace sarà messa duramente alla prova, il che ci obbliga a fare i conti con due esigenze di allenamento, saggiare sufficientemente spesso la nostra capacità di lavoro con % elevate ed allenarci a muoverci all’interno di tempi dilatati (isometrie e isocinetiche), specialmente nelle porzioni di movimento in cui più facilmente si verificheranno perdite di controllo sul carico a causa di una leva maggiormente sfavorevole.